Sicuramente il miglior modo per capire cosa sia stato il manicomio è quello di descriverlo, lasciando parlare fatti e protagonisti di quegli anni. Abbiamo deciso di fare riferimento all’ospedale psichiatrico provinciale del Santa Maria della Pietà di Roma, definito il manicomio modello d’Europa; e, difatti, modello è stato.I lavori per la costruzione dell’impianto vengono iniziati nel 1909 e vedono il termine nel luglio del 1913 con l’ingresso dei primi ricoverati, mentre l’inaugurazione alla presenza di Vittorio Emanuele III risale al Maggio del ’14.Il Santa Maria Della Pietà rispetta in pieno i canoni previsti dalla legge Giolitti, incominciando dalla funzione di allontanamento dei matti dalla città. La scelta della collocazione nella località di Monte Mario non è casuale; allora Roma si estendeva fino a Piazzale degli eroi, in San Pietro. Il complesso viene perciò costruito in un area completamente deserta collegata con il resto della città da una sola linea tranviaria, creata appositamente: la linea 37. L’intero complesso viene costruito con lo spirito del manicomio-villaggio, dentro un parco di alberi ad alto fusto disseminato di siepi e giardini, dietro ai quali spesso sono nascoste le reti di recinzione dei padiglioni, quasi a non voler infastidire l’armonia e la bellezza dell’insieme. La struttura prevede un asse centrale sul quale sono allineati gli edifici dei servizi generali (direzione, chiesa, cucina, dispensa, lavanderia ecc.) che divide il manicomio in due aree, quella maschile, a destra per chi entra dall’ingresso principale, con numerazione pari dei padiglioni, e quella femminile a sinistra, con numerazione dispari. La via principale è costituita da un grande viale circolare concentrico nell’asse attrezzato che, insieme ad altre stradine, per uno sviluppo complessivo di circa sette chilometri, consente di raggiungere facilmente tutti i padiglioni di degenza sparsi attorno.Il progetto iniziale era stimato per accogliere circa 1059 ricoverati che nel corso degli anni, per il consueto sovraffollamento delle corsie, altra caratteristica condivisa con tutti i manicomi, sono arrivati quasi a triplicarsi.L’iter “da persona a matto” aveva inizio con un certificato medico che accertasse la malattia, attraverso una frase ben definita “pericoloso per sé e per gli altri o di pubblico scandalo”. Il paziente in questione veniva ricoverato alla clinica neuropsichiatrica del Policlinico Umberto I, in cui era prevista un’osservazione di un mese terminata la quale o si avrà la dismissione per “non constatata malattia mentale”, o, altrimenti l’internamento in manicomio. Questo comportava l’immediata perdita dei diritti civili e l’iscrizione nel casellario giudiziario: sulla fedina penale rimarrà a vita la dicitura “malato di mente”. Tutto il lavoro è rigidamente programmato: al paziente viene fatto subito il bagno di pulizia, viene spogliato degli abiti e degli effetti personali che saranno poi consegnati alla “Fagotteria”. Alla persona viene tolto tutto, compresi soldi, orologi, catenine, occhiali e persino le foto di famiglia, perché, come prevede il regolamento, il paziente non può, nel suo periodo di internamento, avere nulla di suo. Con la scusa della pericolosità di eventuali oggetti personali viene messo in atto un meccanismo di “spersonalizzazione” e di “omogeneizzazione” tipico di tutte le istituzioni totali. Successivamente gli verrà fornita la divisa istituzionale e sarà smistato nel padiglione assegnato. La divisione dei padiglioni al Santa Maria della Pietà, come in molti manicomi, non avviene per patologia bensì per comportamento. Non sono previsti padiglioni per schizofrenici, depressi, eccetera ma c’è il padiglione degli agitati, quello dei pericolosi, quello dei sudici, quello dei criminali, dei tranquilli, ecc. L’ambiente interno è composto da un salone di sorveglianza, un enorme ambiente vuoto ad eccezione di panche e tavoli, che funge sia da luogo per i pasti che da sala “ricreativa”, anche se la parola ricreativa può ingannare in quanto le persone non erano impegnate in nessuna attività, le tracce del percorso ossessivo dei “pazienti-passeggiatori” che si trovano sui pavimenti rendono chiaro quale fosse l’utilità di questo spazio. Spesso, inoltre, questi saloni sono affollati all’inverosimile: uno spazio costruito per non più di una quindicina di persone arriva ad ospitarne fino a cinquantaIl resto del padiglione è composto dalle corsie di degenza e dalle stanze di isolamento dove i pazienti “più agitati” vengono contenuti per mezzo delle camicie di forza e delle fasce di contenzione. Questi sono i principali mezzi di repressione usati nei manicomi. I pazienti vengono legati al letto o addirittura immobilizzati tramite fasce cucite intorno ai polsi, alle caviglie e, se necessario, anche al tronco rendendo impossibile persino il sollevarsi a sedere sul letto. Gli arredamenti sono spogli e poco curati, tutta l’attenzione é infatti rivolta a far si che non ci fossero oggetti pericolosi, appuntiti o spigolosi da poter essere utilizzati per nuocere a sé o agli altri. Altra importante preoccupazione destano le possibili fughe dei pazienti che rappresentano forse il più grosso smacco per l’istituzione. Le finestre, protette esternamente da grate, sono in ferro con vetri piccoli intercalati da sbarre in ferro e per maggior sicurezza non hanno maniglie ma si aprono con una chiave in dotazione al personale del manicomio: anche respirare un po’ d’aria richiede l’approvazione istituzionale. Si può ben capire perciò cosa significasse per il manicomio l’eventuale fuga di un paziente segregato tra sbarre e reti, completamente spogliato di tutto e osservato 24 ore su 24. Anche l’igiene non merita particolare attenzione dal momento che molti ambienti sono degradati e sporchi, i muri e gli infissi scrostati non vengono tinteggiati per anni. I bagni sono in pessime condizioni: tazze e lavabi saccheggiati in più punti, in qualche caso taglienti e pericolosi. Per la maggior parte della giornata i bagni, soprattutto quelli delle sorveglianze, sono sporchi, con sterco e urina sui pavimenti “…la pulizia del pavimento viene fatto due volte al giorno e in questa circostanza il quadro che si presenta è singolare, non potendo i pazienti uscire da lì. Gli infermieri con la loro autorità li obbligano a sedersi sulle panche o sui tavoli, mentre due pazienti lavoratori ramazzano il pavimento e tutti osservano la scena. Poi si fa il tifo perché il pavimento si asciughi presto e ognuno possa ritornare alle abituali attività: i pazienti ai loro percorsi obbligati, gli infermieri al tavolo dei guardiani”. (“Scene da un manicomio”; Tagliacozzi, Pallotta)Nei periodi estivi era inoltre prevista un’area di sorveglianza esterna, recintata per tutto il perimetro, dove i pazienti potevano “continuare a non far niente” sotto stretta sorveglianza. Per i più “fortunati” c’è, invece, l’attività lavorativa. Il Santa Maria della Pietà è, infatti, una struttura pienamente autosufficiente dove si coltiva la terra, si alleva il bestiame e si produce tutto il necessario al fabbisogno quotidiano: scarpe, vestiti, cinture, lacci, coperte, ecc. All’interno di questi luoghi lavorano i “matti”, anche se parlare di lavoro è improprio, poiché la paga prevista è, negli anni ’60, di circa 3000 lire al mese (la paga di un infermiere in quello stesso periodo è di 50.000 lire), che per di più non vengono date ai pazienti ma sono per loro gestiti dalle suore, non potendo i primi avere nessun oggetto personale a disposizione. Questo lavoro, che la pretesa scientifica della psichiatria chiamerà ergoterapia, crea due enormi contraddizioni. Come infatti giustificare il fatto che persone allontanate dalla società in quanto pericolose e quindi improduttive siano invece in grado di lavorare, ed essere produttive, all’interno del manicomio? Come giustificare inoltre che la cautela del manicomio verso tutto ciò che può essere pericoloso fornisca nello stesso tempo strumenti altamente contundenti come forconi, pale, zappe, falci, forbici o martelli? Va inoltre osservato che, una volta dismessi i panni da lavoro, queste stesse persone abituate a maneggiare vere e proprie armi tornino ad essere sottoposte, all’interno dei padiglioni, alle stesse regole degli altri internati che prevedono, ad esempio, che si debba mangiare con il solo cucchiaio: forchetta e coltello? Troppo pericolosi!!!Tutto viene scandito, calcolato, predisposto per trasformare il “folle” in ciò che l’istituzione vuole che sia: un docile paziente.Anche i ruoli all’interno del manicomio sono rigidi e ben definiti da una gerarchia di potere che dal direttore dell’istituto, massima e incontrastata autorità, passa attraverso i medici e le suore, per arrivare agli infermieri ed ai pazienti, ultimo anello di una catena che mentre definisce le rispettive competenze e i diversi doveri non si preoccupa minimamente di creare quelle condizioni che potrebbero favorire la terapia. Ogni anello infatti controlla quello inferiore e viene a sua volta controllato da quello superiore, impedendo ogni comunicazione tra le diverse parti. Medici e infermieri si incontrano solo di sfuggita tra i viali del parco, ed il rapporto medico-paziente è pressoché nullo. Tutto ciò non crea di certo un clima disteso volto alla collaborazione ma finisce con l’instaurare una logica del controllo totale, come sul corpo (basta pensare al fatto che qualunque patologia organica veniva curata all’interno del manicomio, anche per gli infermieri era prevista una sala di degenza in caso di malattia), così sulla mente. Gli infermieri, loro malgrado, sono i gestori materiali di un’istituzione segregante, spersonalizzante e violenta, e dall’altra i diretti referenti per i pazienti, che li identificano come aguzzini per le angherie che sono costretti a subire. Difficilmente si identifica come responsabile di tale situazione il medico, che nella realtà invece prescrive la terapia farmacologica, l’utilizzo delle fasce di contenzione e avalla la segregazione “…il lavoro dell’infermiere è molto difficile e si mettono in moto meccanismi spontanei di autodifesa psicologica. Si instaura un adeguamento alle regole e, com’è naturale in queste situazioni si viene inglobati dai meccanismi istituzionali senza rendersene conto, divenendo allo stesso tempo strumento e vittima della repressione manicomiale” (idem).Che il manicomio non sia un luogo di cura ma un’istituzione di segregazione e controllo della malattia mentale viene sancito, a monte, dalla stessa legge Giolitti attraverso un perverso meccanismo di “dismissione” dei malati. Dopo l’internamento, il testo di legge consente due possibilità per tornare liberi: l’articolo 64, «dismissione per guarigione clinica», certificata dallo psichiatra; e l’articolo 66, «dismissione in esperimento», che prevede la firma di un parente per presa responsabilità verso il paziente. Il meccanismo è perverso poiché nel caso dell’articolo 64 il presupposto di pericolosità che si porta dietro qualsiasi malato di mente unita alla scarsa assunzione di responsabilità di alcuni psichiatri (chi apporrebbe la propria firma a garanzia della guarigione/non pericolosità di un paziente psichiatrico?), fanno si che questo tipo di dimissione venga poco usato; l’articolo 66 era invece inutile nei casi di orfani o persone abbandonate, oppure quando erano in ballo questioni di interesse economico o contrasti familiari, dove non c’era nessun parente che fosse disposto a firmare il certificato di dimissione. A causa di questi motivi il paziente era spesso condannato a restare in manicomio definitivamente; caso che si verificava molto spesso anche per bambini entrati nell’istituto a seguito di episodi molto banali ma che poi non ne uscivano più.Perfetto nella sua organizzazione, il Santa Maria della Pietà doveva apparire, visto dall’esterno, nella miglior veste possibile. Strutture murarie imponenti e ben curate, rigorosamente suddivise e separate; un bellissimo parco arricchito da piante persino uniche in Italia, ambienti riscaldati e puliti, tempi perfettamente scanditi e rigorosamente rispettati che dovevano rispecchiare la presunta perfezione scientifica della psichiatria.Solo dall’interno era possibile, ad un occhio attento e critico, quali profonde contraddizioni si celassero dietro una spesa cortina di fumo. Uno sguardo che fortunatamente alcuni infermieri e medici decisero di assumere come punto fermo di una battaglia che negli anni ’70 portò all’abbattimento delle reti di recinzione di un reparto e finì col rovesciare l’intero potere all’interno del manicomio. La chiusura ufficiale avviene tuttavia solo nel 1999 a testimonianza del difficile percorso che, nonostante le resistenze sia dei medici che della pubblica amministrazione, si è dovuto attuare per riuscire a far emergere l’inefficienza e le contraddizioni dell’istituzione manicomiale.
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