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martedì 26 agosto 2008

Il disagio dimenticato

Milano: madre e figlio precipitano dal balcone della loro abitazione

TRIESTE, 25/08/2008 (informazione.it - comunicati stampa) Ma che succede a Milano? La settimana scorsa, una donna cinese di 31 anni, colta da un raptus di follia, ha gettato un neonato di pochi giorni dalla finestra del secondo piano di uno stabile in via Bruschetti, dove prestava servizio come domestica. Motivo? Una gelosia irrefrenabile data dal sospetto che il bimbo fosse il frutto di un amore proibito tra il suo fidanzato e la madre del piccolo, che purtroppo è morto a causa del tremendo impatto sull'asfalto.

Ora, a distanza di soli otto giorni, sempre da Milano, arriva un'altra tragica notizia. Una donna italiana, anch'essa 31enne, intorno alle 6.00 di questa mattina, è precipitata dal primo piano di una palazzina in via San Gregorio. Abbracciato a lei, il suo bimbo di 4 mesi. Polizia e ambulanze si sono tempestivamente recate sul posto per portare soccorso e dar luogo ai primi accertamenti. La donna e il neonato sono stati subito trasportati all'Ospedale più vicino: per entrambe si tratta di un "codice giallo" e ciò significa, che sebbene per loro non ci sia imminente pericolo di vita, la condizione è comunque grave. Adesso, non resta altro che attendere, nella speranza che non vi sia l'ennesimo tragico epilogo.

Ciò che lascia disorientati, è l'ipotesi avanzata a seguito delle primissime indagini, che portano a supporre che si tratti non di una caduta accidentale, ma di un tentato suicidio. Se così fosse, la domanda da porsi, a costo di essere ripetitivi sino alla nausea, è sempre la stessa: possibile che nessuno si sia reso conto del disagio interiore di questa giovane madre? Possibile, che non si riesca mai ad evitare il dramma?

Cinzia La calamita

http://www.informazione.it/c/7ec1f45f-f319-416d-9f9e-5362a7b351c1/Il-disagio-dimenticato

sabato 2 agosto 2008

Storia di Vincenzo "O bersagliere"


Vincenzo non era un barbone della stazione ma stava in uno dei quartieri periferici della nostra città. Si chiamava "o bersagliere" perché aveva fatto il soldato come bersagliere e lui era fiero di questo soprannome.
Un pezzo d'uomo, sposato con tre figlie femmine e un maschio, lavorava in un cantiere edile come mastro, era molto in gamba ed era contento di quello che faceva.

Un giorno torna a casa e trova la moglie a letto con un altro. La sua reazione fu quella di andarsene di casa, e cominciò a dormire per la strada. Trovò una macchina abbandonata e quella divenne la sua casa; nel frattempo incominciò a bere.
Un giorno si fece male al piede e seguì una infezione che gli procurò una cancrena a causa della circolazione compromessa dall'alcool. Gli amputarono la gamba destra ma lui continuò a vivere allo stesso modo: si aiutava con una stampella di legno.

Dopo qualche anno si ripresentò lo stesso problema alla gamba sinistra. Era diventato alcoolista e la circolazione andò a farsi benedire. Gli amputarono anche l'altra gamba: il bersagliere era ridotto sulla sedia a rotelle senza le due gambe. Dall'ospedale fu mandato per la convalescenza dalle suore di Madre Teresa in Via Tribunali. Ci sarebbe potuto restare per molto tempo ma un giorno litigò con le suore ed andò via. Ritornò nel suo quartiere dove era sempre vissuto e dove c'erano anche le sue figlie alle quali a modo suo voleva bene ma che, di fatto, lo ignoravano. La sua situazione certe volte mi sembrava irreale: un barbone senza le gambe che in carrozzella girava per il quartiere.

Vincenzo viveva della carità della gente che conosceva. Tutti i sabati mattina andavo a prenderlo con la macchina, mettevamo la carrozzina nel portabagagli e lo accompagnavo in un istituto di suore a lavarsi e a cambiarsi.
Il sabato in questo istituto c'era la possibilità di farsi la doccia e di avere indumenti puliti. Era un momento che lui aspettava non solo perché riusciva a ripulirsi - e lui ci teneva - ma anche perché era un'occasione per poter parlare, lamentarsi, sfogare con qualcuno i propri malumori.
Certe volte pensavo che mi aspettava più per questo motivo che per la doccia. Lui viveva della carità delle persone e questo nella sua situazione era necessario, ma non sempre trovava qualcuno che si fermava ad ascoltare e a parlare con lui.
I suoi compleanni i suoi onomastici erano occasione di festa e gli ultimi due natali della sua vita li avevamo trascorsi insieme. Dopo cena passavo a prenderlo e veniva anche lui alla messa di mezzanotte con me. II suo dolore in queste festività era ancora più forte perché non riusciva ad accettare che i figli stessero a casa a festeggiare e lui doveva restare da solo per la strada.

La situazione sembrò cambiare, quando gli arrivarono gli arretrati della pensione d'invalidità, qualche decina di milioni. Una delle figlie lo prese in casa e cominciò a prendersi cura di lui. Durò un mese e mezzo, finiti i soldi, finì anche la capacità di sopportazione della figlia e lui tornò per la strada.
Non voglio lanciare accuse contro nessuno perché effettivamente Vincenzo non era una persona facile: beveva, era handicappato, un po' prepotente, non era sicuramente facile avere un rapporto con lui. Erano evidenti le difficoltà con la famiglia.
Quello che penso è questo: spesso le difficoltà sono vissute non come problema da affrontare e risolvere, facendosi anche aiutare, ma invece come scusante per non fare una cosa. Voglio dire che non condanno l'incapacità di affrontare una situazione, perché nessuno di noi può giudicare, ma mi sconcerta l'isolamento affettivo, l'emarginazione umana e sociale, per cui una persona che perde i punti di riferimento ha difficoltà anche nello scambiare una parola con qualcuno.
Finiti i soldi dovette ritornare nella strada; la delusione fu fortissima, incominciò a bere ancora di più. II momento più difficile fu quando venne coinvolto da persone del quartiere che conosceva, in un traffico di droga. Per circa una settimana fece da corriere perché nelle sue condizioni non era sospetto, quindi poteva muoversi per il quartiere liberamente.
Mi raccontò che gli era stata fatta la proposta di collaborare, dietro un compenso di circa 50.000 lire al giorno, cifra enorme per una persona nelle sue condizioni. Questo è un aspetto molto triste della nostra realtà così piena di problemi, dove lavorare è un lusso e dove la malavita è pronta a cogliere le occasioni e approfittare del bisogno delle persone.

Devo dire che in quell'occasione Vincenzo dimostrò un grande buon senso, comprese che era preferibile fare delle rinunce più che sporcarsi le mani con la morte di qualche giovane. Uno dei suoi generi era tossicodipendente e capì che per assurdo poteva essere lui ad alimentare le difficoltà della figlia: per questo mandò tutto all'aria e ritornò a vivere di elemosina rinunciando a quel guadagno facile.
La mia amicizia con lui fu di aiuto per le persone del quartiere: queste si resero conto che con lui era possibile avere un rapporto diverso. Cominciavano a vederlo con uno sguardo più comprensivo.
Vincenzo morì per cirrosi epatica, dopo circa un anno da quando era stato mandato via dalla figlia, mentre si trovava ricoverato all'ospedale S. Gennaro.

http://www.psgna.org/poveri/barb05.htm

Storia di un manicomio, il Santa Maria della Pietà


Sicuramente il miglior modo per capire cosa sia stato il manicomio è quello di descriverlo, lasciando parlare fatti e protagonisti di quegli anni. Abbiamo deciso di fare riferimento all’ospedale psichiatrico provinciale del Santa Maria della Pietà di Roma, definito il manicomio modello d’Europa; e, difatti, modello è stato.I lavori per la costruzione dell’impianto vengono iniziati nel 1909 e vedono il termine nel luglio del 1913 con l’ingresso dei primi ricoverati, mentre l’inaugurazione alla presenza di Vittorio Emanuele III risale al Maggio del ’14.Il Santa Maria Della Pietà rispetta in pieno i canoni previsti dalla legge Giolitti, incominciando dalla funzione di allontanamento dei matti dalla città. La scelta della collocazione nella località di Monte Mario non è casuale; allora Roma si estendeva fino a Piazzale degli eroi, in San Pietro. Il complesso viene perciò costruito in un area completamente deserta collegata con il resto della città da una sola linea tranviaria, creata appositamente: la linea 37. L’intero complesso viene costruito con lo spirito del manicomio-villaggio, dentro un parco di alberi ad alto fusto disseminato di siepi e giardini, dietro ai quali spesso sono nascoste le reti di recinzione dei padiglioni, quasi a non voler infastidire l’armonia e la bellezza dell’insieme. La struttura prevede un asse centrale sul quale sono allineati gli edifici dei servizi generali (direzione, chiesa, cucina, dispensa, lavanderia ecc.) che divide il manicomio in due aree, quella maschile, a destra per chi entra dall’ingresso principale, con numerazione pari dei padiglioni, e quella femminile a sinistra, con numerazione dispari. La via principale è costituita da un grande viale circolare concentrico nell’asse attrezzato che, insieme ad altre stradine, per uno sviluppo complessivo di circa sette chilometri, consente di raggiungere facilmente tutti i padiglioni di degenza sparsi attorno.Il progetto iniziale era stimato per accogliere circa 1059 ricoverati che nel corso degli anni, per il consueto sovraffollamento delle corsie, altra caratteristica condivisa con tutti i manicomi, sono arrivati quasi a triplicarsi.L’iter “da persona a matto” aveva inizio con un certificato medico che accertasse la malattia, attraverso una frase ben definita “pericoloso per sé e per gli altri o di pubblico scandalo”. Il paziente in questione veniva ricoverato alla clinica neuropsichiatrica del Policlinico Umberto I, in cui era prevista un’osservazione di un mese terminata la quale o si avrà la dismissione per “non constatata malattia mentale”, o, altrimenti l’internamento in manicomio. Questo comportava l’immediata perdita dei diritti civili e l’iscrizione nel casellario giudiziario: sulla fedina penale rimarrà a vita la dicitura “malato di mente”. Tutto il lavoro è rigidamente programmato: al paziente viene fatto subito il bagno di pulizia, viene spogliato degli abiti e degli effetti personali che saranno poi consegnati alla “Fagotteria”. Alla persona viene tolto tutto, compresi soldi, orologi, catenine, occhiali e persino le foto di famiglia, perché, come prevede il regolamento, il paziente non può, nel suo periodo di internamento, avere nulla di suo. Con la scusa della pericolosità di eventuali oggetti personali viene messo in atto un meccanismo di “spersonalizzazione” e di “omogeneizzazione” tipico di tutte le istituzioni totali. Successivamente gli verrà fornita la divisa istituzionale e sarà smistato nel padiglione assegnato. La divisione dei padiglioni al Santa Maria della Pietà, come in molti manicomi, non avviene per patologia bensì per comportamento. Non sono previsti padiglioni per schizofrenici, depressi, eccetera ma c’è il padiglione degli agitati, quello dei pericolosi, quello dei sudici, quello dei criminali, dei tranquilli, ecc. L’ambiente interno è composto da un salone di sorveglianza, un enorme ambiente vuoto ad eccezione di panche e tavoli, che funge sia da luogo per i pasti che da sala “ricreativa”, anche se la parola ricreativa può ingannare in quanto le persone non erano impegnate in nessuna attività, le tracce del percorso ossessivo dei “pazienti-passeggiatori” che si trovano sui pavimenti rendono chiaro quale fosse l’utilità di questo spazio. Spesso, inoltre, questi saloni sono affollati all’inverosimile: uno spazio costruito per non più di una quindicina di persone arriva ad ospitarne fino a cinquantaIl resto del padiglione è composto dalle corsie di degenza e dalle stanze di isolamento dove i pazienti “più agitati” vengono contenuti per mezzo delle camicie di forza e delle fasce di contenzione. Questi sono i principali mezzi di repressione usati nei manicomi. I pazienti vengono legati al letto o addirittura immobilizzati tramite fasce cucite intorno ai polsi, alle caviglie e, se necessario, anche al tronco rendendo impossibile persino il sollevarsi a sedere sul letto. Gli arredamenti sono spogli e poco curati, tutta l’attenzione é infatti rivolta a far si che non ci fossero oggetti pericolosi, appuntiti o spigolosi da poter essere utilizzati per nuocere a sé o agli altri. Altra importante preoccupazione destano le possibili fughe dei pazienti che rappresentano forse il più grosso smacco per l’istituzione. Le finestre, protette esternamente da grate, sono in ferro con vetri piccoli intercalati da sbarre in ferro e per maggior sicurezza non hanno maniglie ma si aprono con una chiave in dotazione al personale del manicomio: anche respirare un po’ d’aria richiede l’approvazione istituzionale. Si può ben capire perciò cosa significasse per il manicomio l’eventuale fuga di un paziente segregato tra sbarre e reti, completamente spogliato di tutto e osservato 24 ore su 24. Anche l’igiene non merita particolare attenzione dal momento che molti ambienti sono degradati e sporchi, i muri e gli infissi scrostati non vengono tinteggiati per anni. I bagni sono in pessime condizioni: tazze e lavabi saccheggiati in più punti, in qualche caso taglienti e pericolosi. Per la maggior parte della giornata i bagni, soprattutto quelli delle sorveglianze, sono sporchi, con sterco e urina sui pavimenti “…la pulizia del pavimento viene fatto due volte al giorno e in questa circostanza il quadro che si presenta è singolare, non potendo i pazienti uscire da lì. Gli infermieri con la loro autorità li obbligano a sedersi sulle panche o sui tavoli, mentre due pazienti lavoratori ramazzano il pavimento e tutti osservano la scena. Poi si fa il tifo perché il pavimento si asciughi presto e ognuno possa ritornare alle abituali attività: i pazienti ai loro percorsi obbligati, gli infermieri al tavolo dei guardiani”. (“Scene da un manicomio”; Tagliacozzi, Pallotta)Nei periodi estivi era inoltre prevista un’area di sorveglianza esterna, recintata per tutto il perimetro, dove i pazienti potevano “continuare a non far niente” sotto stretta sorveglianza. Per i più “fortunati” c’è, invece, l’attività lavorativa. Il Santa Maria della Pietà è, infatti, una struttura pienamente autosufficiente dove si coltiva la terra, si alleva il bestiame e si produce tutto il necessario al fabbisogno quotidiano: scarpe, vestiti, cinture, lacci, coperte, ecc. All’interno di questi luoghi lavorano i “matti”, anche se parlare di lavoro è improprio, poiché la paga prevista è, negli anni ’60, di circa 3000 lire al mese (la paga di un infermiere in quello stesso periodo è di 50.000 lire), che per di più non vengono date ai pazienti ma sono per loro gestiti dalle suore, non potendo i primi avere nessun oggetto personale a disposizione. Questo lavoro, che la pretesa scientifica della psichiatria chiamerà ergoterapia, crea due enormi contraddizioni. Come infatti giustificare il fatto che persone allontanate dalla società in quanto pericolose e quindi improduttive siano invece in grado di lavorare, ed essere produttive, all’interno del manicomio? Come giustificare inoltre che la cautela del manicomio verso tutto ciò che può essere pericoloso fornisca nello stesso tempo strumenti altamente contundenti come forconi, pale, zappe, falci, forbici o martelli? Va inoltre osservato che, una volta dismessi i panni da lavoro, queste stesse persone abituate a maneggiare vere e proprie armi tornino ad essere sottoposte, all’interno dei padiglioni, alle stesse regole degli altri internati che prevedono, ad esempio, che si debba mangiare con il solo cucchiaio: forchetta e coltello? Troppo pericolosi!!!Tutto viene scandito, calcolato, predisposto per trasformare il “folle” in ciò che l’istituzione vuole che sia: un docile paziente.Anche i ruoli all’interno del manicomio sono rigidi e ben definiti da una gerarchia di potere che dal direttore dell’istituto, massima e incontrastata autorità, passa attraverso i medici e le suore, per arrivare agli infermieri ed ai pazienti, ultimo anello di una catena che mentre definisce le rispettive competenze e i diversi doveri non si preoccupa minimamente di creare quelle condizioni che potrebbero favorire la terapia. Ogni anello infatti controlla quello inferiore e viene a sua volta controllato da quello superiore, impedendo ogni comunicazione tra le diverse parti. Medici e infermieri si incontrano solo di sfuggita tra i viali del parco, ed il rapporto medico-paziente è pressoché nullo. Tutto ciò non crea di certo un clima disteso volto alla collaborazione ma finisce con l’instaurare una logica del controllo totale, come sul corpo (basta pensare al fatto che qualunque patologia organica veniva curata all’interno del manicomio, anche per gli infermieri era prevista una sala di degenza in caso di malattia), così sulla mente. Gli infermieri, loro malgrado, sono i gestori materiali di un’istituzione segregante, spersonalizzante e violenta, e dall’altra i diretti referenti per i pazienti, che li identificano come aguzzini per le angherie che sono costretti a subire. Difficilmente si identifica come responsabile di tale situazione il medico, che nella realtà invece prescrive la terapia farmacologica, l’utilizzo delle fasce di contenzione e avalla la segregazione “…il lavoro dell’infermiere è molto difficile e si mettono in moto meccanismi spontanei di autodifesa psicologica. Si instaura un adeguamento alle regole e, com’è naturale in queste situazioni si viene inglobati dai meccanismi istituzionali senza rendersene conto, divenendo allo stesso tempo strumento e vittima della repressione manicomiale” (idem).Che il manicomio non sia un luogo di cura ma un’istituzione di segregazione e controllo della malattia mentale viene sancito, a monte, dalla stessa legge Giolitti attraverso un perverso meccanismo di “dismissione” dei malati. Dopo l’internamento, il testo di legge consente due possibilità per tornare liberi: l’articolo 64, «dismissione per guarigione clinica», certificata dallo psichiatra; e l’articolo 66, «dismissione in esperimento», che prevede la firma di un parente per presa responsabilità verso il paziente. Il meccanismo è perverso poiché nel caso dell’articolo 64 il presupposto di pericolosità che si porta dietro qualsiasi malato di mente unita alla scarsa assunzione di responsabilità di alcuni psichiatri (chi apporrebbe la propria firma a garanzia della guarigione/non pericolosità di un paziente psichiatrico?), fanno si che questo tipo di dimissione venga poco usato; l’articolo 66 era invece inutile nei casi di orfani o persone abbandonate, oppure quando erano in ballo questioni di interesse economico o contrasti familiari, dove non c’era nessun parente che fosse disposto a firmare il certificato di dimissione. A causa di questi motivi il paziente era spesso condannato a restare in manicomio definitivamente; caso che si verificava molto spesso anche per bambini entrati nell’istituto a seguito di episodi molto banali ma che poi non ne uscivano più.Perfetto nella sua organizzazione, il Santa Maria della Pietà doveva apparire, visto dall’esterno, nella miglior veste possibile. Strutture murarie imponenti e ben curate, rigorosamente suddivise e separate; un bellissimo parco arricchito da piante persino uniche in Italia, ambienti riscaldati e puliti, tempi perfettamente scanditi e rigorosamente rispettati che dovevano rispecchiare la presunta perfezione scientifica della psichiatria.Solo dall’interno era possibile, ad un occhio attento e critico, quali profonde contraddizioni si celassero dietro una spesa cortina di fumo. Uno sguardo che fortunatamente alcuni infermieri e medici decisero di assumere come punto fermo di una battaglia che negli anni ’70 portò all’abbattimento delle reti di recinzione di un reparto e finì col rovesciare l’intero potere all’interno del manicomio. La chiusura ufficiale avviene tuttavia solo nel 1999 a testimonianza del difficile percorso che, nonostante le resistenze sia dei medici che della pubblica amministrazione, si è dovuto attuare per riuscire a far emergere l’inefficienza e le contraddizioni dell’istituzione manicomiale.

http://www.psicollettivo.org/index.php?option=com_content&task=view&id=83&Itemid=9

venerdì 1 agosto 2008

I nuovi volti del disagio adolescenziale e giovanile


La responsabilità della storia, e, dunque, del futuro è radicata nella nostra presente idiozia. La storia rimane una catena di tragedie, che non si spezza mai. Ma noi siamo capaci di dimenticarcene. Questa dimenticanza genera una specie di felicità. E, invece, è la causa delle nostre future tragedie. OKAZAKI KENJIRO, TSUDA YOSHINORI

Il disagio adolescenziale ed il malessere diffuso tra i giovani, a livelli ormai preoccupanti, impongono a tutti, in primo luogo alle istituzioni, il dovere di attuare concreti provvedimenti per cercare di ridurne e, se possibile, di eliminarne le cause.

L'obiettivo che dobbiamo prefiggerci è di favorire la formazione di un giovane, che da adulto troverà in se' la forza per non essere sconfitto dalla vita, per non fondare la ragione del proprio vivere sull'avere ma sull'essere se stesso, per non cercare fuori di sé, nella droga e nel rifiuto della vita, la risoluzione dei propri problemi. Da simili premesse consegue che dobbiamo rivedere, con modestia e con l'uso di tutta la ragione e di tutta la sensibilità di cui siamo capaci, anche l'insieme dei servizi sociali e sanitari che abbiamo finora creato. E' un problema sociale e culturale prima ancora d’avere anche risvolti economici.

Nel nostro tempo, un'ottica clinica che consideri i disturbi comportamentali degli adolescenti in modo dinamico ed integrato con i fattori sociali ed ambientali è sempre più necessaria. Le patologie psichiche non sono solo le fredde astrazioni descritte nei trattati, ma un complesso insieme sintomatologico che risulta condizionato dalle grandi trasformazioni sociali e culturali degli ultimi decenni. Nel mondo adolescenziale e giovanile, più sensibile ed esposto ai cambiamenti, possono essere evidenziate nuove espressioni di disagio mentale e comportamentale, che, per la loro diffusione, assumono il ruolo di patologie sociali. Spesso risulta incerto il confine tra tali forme di disagio estremo con malattie mentali classiche, quali depressione e psicosi. Un numero crescente d’adolescenti e di giovani risultano alla ricerca esasperata di stimoli intensi, di sensazioni forti (sensation seeking). Molti di loro presentano una sorta d’insensibilità alle gratificazioni della quotidianità. La soglia di gratificazione sempre più alta, la scarsa capacità di provare piacere rende molti giovani anedonici, abulici, annoiati, incapaci, per di più, di saper dilazionare la fruizione degli oggetti desiderati. Solo le attività 'a rischio', straordinarie e pericolose, risultano degne d’attenzione. Tra questi giovani non è raro incontrare soggetti che esibiscono comportamenti molto rischiosi per la vita, disturbi più o meno gravi del rapporto con la realtà, isolamento con atteggiamenti antisociali e disturbi del controllo degli impulsi. Talora si evidenziano forti difficoltà a comunicare, a stabilire relazioni affettive, ad esprimere o a comprendere stati emotivi. Si vive in una sorta di deserto emozionale, con elementi residuali di comunicazione interpersonale ridotti all'espressione d’aggressività o sottomissione. In alcuni casi si registra una sostanziale incapacità ad assumersi qualsiasi responsabilità rispetto alle conseguenze delle proprie azioni, in una sorta di deserto etico, riempito da un’assoluta dipendenza dal denaro, unica misura di successo, nonché dalla cura della propria forma fisica, fine a se stessa. Il labile contatto con la realtà, può sfiorare, frequentemente, i disturbi psicopatologici più gravi della serie psicotica. Le fughe in pseudo-realtà mistiche ed in organizzazioni, sette e culti magico-misterici inducono spesso atteggiamenti regressivi di grave dipendenza psicologica, con comportamenti aberranti, autolesivi, autodistruttivi e, solitamente, incongrui rispetto al contesto socioculturale e lavorativo. Questi adolescenti senza storia e senza futuro si riducono a vivere alla giornata in un tempo soggettivo senza progettualità e senza nessuna evoluzione verso una completa maturazione sociale. La propensione all'aggressività, l'incapacità di gestire i propri impulsi, il vuoto esistenziale, l'incapacità a stabilire e mantenere relazioni affettive stabili, i disturbi ideativi e di rapporto con la realtà, presenti in molti giovani, risultano spesso indistinguibili dai segni e dai sintomi clinici propri o prodromici allo sviluppo di gravi psicopatologie, dai disturbi di personalità alle psicosi schizofreniche, dai disturbi d'ansia alle più gravi distimie. D'altro canto, il tessuto socio-relazionale ed affettivo, in cui stanno crescendo i nostri giovani, spesso molto problematico, può probabilmente favorire lo sviluppo o la slatentizzazione di forme di psicopatologia altrimenti subcliniche. Da ciò, la necessità di un forte impegno preventivo nei confronti del singolo soggetto, ma anche nei confronti delle famiglie e del contesto micro-sociale e macro-sociale, al fine di scongiurare il formarsi di un 'humus' favorevole all'insorgere di forme di disagio giovanile sempre più problematiche ed ingestibili sul piano sociale. (1-2)

Fattori attuali del disagio psicologico dell'adolescente

Il compito psico-sociale, specifico della fase evolutiva adolescenziale, è la costruzione di un'identità separata, con la capacità di assumere e riprodurre dei ruoli autonomi. (3) La costruzione di un'identità avviene in maniera relativamente semplice, naturale e senza problemi, in una struttura sociale statica o in ogni modo portatrice di modelli e valori ben definiti. In tal caso, la rivoluzione nella percezione di sé, legata alle rapide e profonde trasformazioni della pubertà e dell'adolescenza, è arginato ed instradato in modelli comportamentali ed etici, che delimitano le alternative. Senza dubbio, uno dei fattori che regolano la fluidità o la difficoltà patologica nell'affrontare questa fase evolutiva di passaggio e spesso di crisi, coincide con la disponibilità soggettiva ed oggettiva ad intraprendere delle azioni e a vivere delle esperienze in modo autonomo e separato, rispetto all'universo genitoriale. (4) In altre parole esiste, a causa d'esperienze anticipate d’assunzioni di ruolo oppure, viceversa, a causa della non accettazione da parte dei genitori della possibilità di separazione del figlio, l'eventualità che la costruzione di un'identità autonoma è anticipata od a lungo inibita e resa problematica. Questo vuol dire che esperienze precoci d’inserimento nel lavoro e nel mondo degli adulti possono accelerare l'evoluzione dell'adolescente, ove esperienze di procrastinazione estrema di tale ingresso nella realtà adulta (come nel caso degli studenti universitari o delle lunghissime ricerche di una prima occupazione) possono prorogare, anche fino alla soglia dei trent'anni, uno status ed un vissuto da adolescente.

La strutturazione del lavoro contemporanea, con la crescente richiesta di specializzazione e con la concomitante crisi nell'offerta d'impiego per i giovani, favorisce una dilatazione smisurata del "tempo" dell'adolescenza. Le problematiche della transizione adolescenziale nel figlio, legate all'elaborazione della perdita della sicurezza ed all'acquisizione di limiti di ruolo, sono per alcuni versi speculari, ma anche parallele a quelle che sono al centro della transizione e della crisi della mezza età dei genitori. (5) E' quest'ultima, una fase d’abbandono e trasformazione di ruoli, di primo bilancio e confronto col proprio progetto o sogno personale, di presa di coscienza dei limiti della propria vita. (6-7) Queste due fasi, spesso, coincidono nel tempo, fra genitori e figli, il che rende più arduo per entrambi il compito evolutivo. Infatti, mentre il genitore tende a patire per la perdita del figlio, che si rende autonomo ed esce gradualmente dalla sua vita, il figlio deve affrontare l'ulteriore ostacolo di un genitore che non è più forte e orientato al futuro, ma oppositivo, resistente e timoroso di fronte ad ogni cambiamento. (8-9) In ambito clinico, il problema dell'autonomia dalle figure genitoriali, autonomia spesso negata, talora rifiutata, a volte agita come ribellione, risulta spesso centrale. La dipendenza psicologica nei confronti delle figure genitoriali e le ansie edipiche, ad essa collegate, sembrano influenzare l'evoluzione identitaria e lo sviluppo di sintomi clinici. Il vissuto di dipendenza può variare, infatti, dalla completa impotenza, conseguenza di una relazione patologica simbiotica, alle condotte oppositive di ribellione sistematica, altrettanto patologica. In sintesi, l'adolescenza contemporanea sembrerebbe caratterizzata da un progressivo dilatarsi della sua durata e da una crescente difficoltà ad assumere un'identità autonoma ed indipendente da quella genitoriale.

Il ruolo di divorzio e separazione genitoriale

Non infrequentemente la delicata fase di sviluppo adolescenziale trova nel comportamento genitoriale una delle più forti cause di sofferenza. In questo periodo di profonda crisi etico-sociale dei modelli di comportamento familiare, spesso gli adulti sono troppo affannati dalla propria infelicità, per potersi occupare di quella dei ragazzi. Il non offrire loro una stabilità e continuità affettiva può essere la premessa a gravi disturbi. Talora questi genitori, nella loro disperata lotta per la separazione, si contendono i figli adolescenti, come oggetto di ricatto e strumento di punizione reciproca. Questi ragazzi vivono gli anni decisivi per la loro crescita in un clima di grande precarietà affettiva, smembrati e divisi tra genitori in guerra, talora usati come merce di scambio e privati del loro fondamentale diritto ad un'autentica e profonda relazione affettiva, con entrambi le figure genitoriali. I ragazzi soffrono, ma non si vergognano, per un genitore morto. Si vergognano e rifiutano un padre o una madre che sanno o vogliono assumersi il loro ruolo genitoriale, sino in fondo. I figli non potranno mai divorziare dai loro genitori, che resteranno tali, anche se cambia il loro rapporto e, soprattutto, va ricordato che i genitori da cui nascere non si possono scegliere. Di solito i figli di una coppia in crisi tendono ad introiettare la colpa, sentendosi, a torto, la causa della sofferenza loro e di quella dei loro genitori. Soffrono perché credono d'essere stati loro a provocarla, intrappolati, fin dalla nascita, in una specie di fatalità.

http://www.salus.it/medicinadelledipendenze/capitolo_2.html
Antologia del disagio a cura di Costantino Liquori